Come mi sta?…no stringi di più…dammi un goccio su…bevi…

Senti come raspa nella gola il bacio profondo dell’angelo azzurro, il bicchiere barcolla sul profilo del lavandino sudicio di ruggine e cipria mentre lui si ripassa gli occhi di kohl…di più, di più, di più…

Sento una danza di brividi sotto tutta la pelle, forse è questa plastica, il sudore non so…forse invece la gente là fuori…li hai sentiti, li hai sentiti vero? Come mi accarezzavano con gli occhi, come si spingeva a me il desiderio, i l mare fa lo stesso coi ciottoli sulla battigia, ed era tra le dita come acqua calda e rose e poi giù sulla pancia e le gambe, oh Dea…dammi un altro goccio, su…bevi anche tu.

Smagrito come una bestia abbandonata, impacchettato in quella maglia di latex, sembra spaccarsi quando ride…una lama sorriso che sega in due e lo lascia stremato…in preda ai brividi della febbre, non a quelli dell’eccitazione come invece vorrebbe, oh sì, vorrebbe….ma eccolo di nuovo, con una stupefacente maschera, un nuovo gioco d’inganni, inganni per gli altri e per se stesso, polvere colorata sul volto per confondere le cicatrici sotto il pallore tipo "Bela Lugosi is Dead" e glitter negli occhi perché il riverbero d’argento delle luci lo accechi…cucciolo-glamourous-dopo-la-fine-del-mondo, digrigna i denti allo specchio, si stropiccia di nuovo le ciglia con le dita…

 

"Lascia stare"

 

Ti guarda…sorseggia le ultime gocce del cocktail…spingendo la lingua sul fondo a rubare i rimasugli di liquido fuoco blu e travolgersi scrollando indietro il capo e ti guarda di nuovo…brucia…mordicchia la plastica…

Ha le palpebre d’argento, i capelli d’argento, le dita…sottili, come zampe di ragno…d’argento.

Intorno al collo, ai polsi, ha voluto mettersi, chissà perché…una catena

Tu, hai sempre la mia? La mia vecchia, vecchissima amica…

Ti afferra il polso, attraverso i veli…

La corona e la catena…le uniche due cose che mi ha lasciato mia madre…Beliiinda portamene un altro, subito….

 

La troia almeno tace. È abbastanza intelligente per capire che qualcosa non va.

È abbastanza strega per sentire anche lei, stasera, il silenzio delle TRE.

Sulla corona e sulla catena di Felsina.

 

Perché, lo sai, vero Evàn, lo sai cosa stai combinando? Lo sai che sono tredici notti che le vestali tremano come carta bruciata sotto i veli di pietra e sono tredici notti, nei miei sogni, che ti raccolgo a brandelli, brani di carne gocciolante, ossa frantumate, viscere scure molle materia cerebrale…neanche una madre amorosa potrebbe immergere con tanta devozione le mani in una simile collezione di sciagura, e abbracciare i tuoi pezzi…baciare la carne che rimane impigliata tra le dita…sentire che non sei altro che sangue raggrumato nello sporco sotto le unghie…che a parte questo divino scannatoio, di te non c’è più niente, non c’è più niente…lo sai, vero, Evàn?

 

No, questa maglia fa schifo…mi soffoca…aiutami a toglierla.

 

Per un istante, fulmineo, nelle dita…hai sentito…prenderlo, toccargli la pelle di gesso…profumata di mosto e di bosco.

Ma non lo diceva a te.

La marchesa è fulminea più di ogni voglia. È la voglia. Ha aspettato anni per mettergli le mani addosso, e ora è lì. In silenzioso trionfo…nel camerino del suo principino, praticamente sola (perché ti considera poco più che un ingombrante suppellettile)…a spogliarselo tutto e poi di nuovo con le sue moine da gatt…no, la gatta è un’altra.

Il gioco però è lo stesso.

E a lui questo gioco piace. Immensamente. Forse l’unico gioco che gli piace davvero. Se è un gioco. Per lui, almeno…

Metti-questa-tesoro sibila la platinata al suo orecchio.

No.

Non permetterai che il principe delle fate compaia in pubblico leopardato. Se devi influenzare qualcosa…sarà almeno il suo guardaroba. Attenta alle mani, Marchesa….

Oh, si è macchiato, che sfiga però…potevi stare un po’ attenta Bel…cosa cazzo mi metto adesso….

Continua a ripassarsi ossessivamente gli occhi di nero. La pelle sottile, là sulle ciglia, si graffia fittamente e una negra colata di lacrime gli scava tutte le guance.

…Ah, che merda…

Ecco, lo sapevi. Ora lo fa…Solleva le mani come un uccello che prenda rapidamente il volo, dopo uno sparo, uno spavento, e con quelle dita , sottili, da ragno, d’argento, acciuffa il fumo la voglia la luce violetta il profumo della sua pelle che freme delle labbra della marchesa…l’odore dei tuoi capelli di seta nera…magia.

 

 

 

come finisce quel pezzo Tanachvil…in den sterbende Gartentraum…sì è lui…vado…fatti baciare…

Va.

Si ferma un istante sul gradino.

Si volta.

Ti guarda.

È l’istante.

Quello.

Lo stesso di quando, era novembre, oramai due anni fa, venne a bussare un magro ragazzo, uno strano, di Bologna forse no, alla porta di Ouroboros, un altro che aveva bisogno certo, un altro…ed ecco che apri la porta.

 

 

 

 

 

È l’istante.

Qui si ha sempre paura di morire.

 

 

 

 

 

Faust griderebbe "Fermati, sei bello".Ma tu sei la vestale di Felsina. Non puoi gridare, se non profezie.

E questa l’hai gridata. Troppo tempo fa, per ricordarsene…troppo tempo fa…

Quando il tempo era una trottola d’argento tra le dita della creatura più bella e arrogante del Sogno…la regina dagli occhi d’oro che volle piegarsi alle brame del cervo…Là, sotto il salice, nella notte di Beltane, nel suo terribile travaglio di Dea, c’eri anche tu, a cantare il destino di quel principe nero delle fate, trascinata dai lugubri bassi della paura e del buio fino al grido estatico della frenesia…fu l’unica volta in cui le caste velate di Northia si confusero con le sfrenate seguaci di Bassareus…Fredde furie, baccanti inviolate.

E forse fu la prima volta in cui, sotto il tessuto di tenebra, nella lunga ombra della cieca veggente, il desiderio ti sfiorò.

Quella la prima di molte volte ancora.

E quello il primo di tanti gesti scellerati che tutte comunque cantaste…atterrite voi stesse dalle parole che il Dan spingeva nella vostra gola e voi rigettavate melodiosamente…perché così deve essere.

È ora.

Va.

 

Ma dove va?…

Non è lui che prende la scaletta d’alluminio…non è lui che si sfrega a Belinda prima che il neon sfolgori sulle loro teste coronate…non è lui.

Non è lui a sfilarsi dall’abbraccio della Marchesa per concedersi a quella folla di uomini donne e fate…non è lui a fare l’occhiolino alla piccola Zarmina, non è lui ad accarezzare la mano dell’Ambasciatore di Sotto-Le-Acque dai lunghi capelli verde azzurri brillanti come alghe fosforescenti nel buio della sala…non è lui a spiegare le braccia come un angelo in caduta e lanciare nell’aria il suo triplice grido. Non è lui.

Lui ha aperto la porta sul retro. Hai sentito l’aria fredda, dell’ultima notte dell’anno, sfiorarti il lembo del velo. E il sottile sentore di bestia umida e sottobosco scivolare impercettibilmente nel vasto buio dei colli, tutti qui intorno…

L’ultimo inganno?

Un gioco?

Non andrà mica dalla gatta?

No, non è possibile…risale dalla gola, come tremendo conato, un’onda di suono rattrappito dai secoli e dalle molte morti…l’urlo fatale che le nebbie avevano cancellato…il destino di Evàn che, parola per parola, avevi cantato. Che già sapevi. Parola per parola. Qui la gatta non c’è più.

E così canti sommessa, a fior di labbra, come funerea ninna-nanna, e senti la lava bruciarti le guance, e infili la porta sul retro, abbracciata dal freddo dell’ultima notte del mondo. Mentre il suo ultimo inganno, magia di fata, camuffata sotto le croste di glitter e cerone, fa l’amore con la Marchesa che non avrà mai il suo cuore, e solleva nel buio il suo canto amaro…

in den sterbende Gartentraum…

…nel morente sogno-giardino…

Accontentavi di un sogno di fumo e profumo, voi.

Io, no.

 

 

 

LAST NIGHT ON EARTH

Oltre il parcheggio gremito di auto e ritardatari si stende una breve macchia di tamerici scuri e lunghe erbe bruciate dal gelo appena piegate da cumuli di neve nera. Sopra di voi un cielo di insostenibile purezza, e là sotto c’è il mare. Incendiato dai fuochi della mezzanotte, riluce come uno specchio d’ossidiana scheggiata…briciole di smeraldo e lingue di granato, petali di oro zecchino e piume d’argento incendiario…in questa esplosione di polveri piriche e fuochi fatui ti colpisce il silenzio…come se la luce appartenesse a un altro mondo, abbastanza vicino da essere visto, ma non a sufficienza perché ti possa disturbare…quando hai varcato la soglia? Non importa, ora sei già oltre…laggiù tra i rami del tasso vedi sfavillare qualcosa di chiaro. Simile a luna caduta e imprigionata tra i rami di un rovo. È lui.

"Lascialo."

È nero e sa di sangue rappreso. Striscia sulla sterpaglia carezzando la terra con le braccia spropositate e gli artigli seghettati e orrendi. Pelle di morto appestato. Volto coperto da un maschera grifagna.

"Lascialo andare. Qui stiamo terminando una cosa cominciata nel Sogno. E tu, dannazione, là non c’eri."

"Là non c’eri, capito? Vattene".

"Vattene, a lui non servi più."

"Via"

Ma con chi crede di parlare? Qui non c’è più la piccola nera Tanachvil con la voce del fiume e la spola tra le dita. Qui non c’è più la piccola nera Tanachvil con le storie da raccontare e il calice di vino speziato in mano. Qui non c’è più la piccola nera Tanachvil carica delle bende sporche del sangue del Principe e nuove benedizioni.

Qui c’è una cosa di pietra.

Solo il velo, vivo, si muove sull’erba. Sfrigolando di lampi scarlatti.

"Vuoi il gioco duro strega? Va bene? Ma credi di poter giocare con me…".

No…se potesse vedere il tuo sorriso sotto i veli, neanche alzerebbe la mano. Ma non può.

È finito il tempo dei giochi.

"Fermo e zitto bestia d’incubo".

(in quel momento, lontano lontano, o vicino vicino, qualcosa si agita sul fondo di uno scrigno di giada, e pulsa violento come un cuore ferito).

"Qui finisce una cosa cominciata tanto tempo fa. Allora io non c’ero. Ma alla fine delle cose, io ci sono sempre."

Lo abbandoni nella macchia. E, nera, insegui la tua luce.

Nella forra tra i colli c’è una macchia di alberi secchi per l’inverno. Con rami spinosi lanciati verso l’alto come agra bestemmia. La terra però è molle e ricca d’acque, e gorgoglia sotto i tuoi passi e risucchia le tue vesti. E c’è una luce fredda , venuta chissà da quali regioni, che stende riflessi di madreperla sulle rocce affioranti, sul ruvido torso di un olivo spaccato, sulla quercia segnata dal fulmine, sul salice curvo come una vecchia che piange. Ci sono proprio tutti.

E là, c’è lui.

Sul capo brilla la corona di Felsina. Per il resto è nudo come una giovane bellissima bestia. Pare la luna impigliata tra i rami. Pare la luna caduta e insozzata di terra e sangue. Sottile come la falce che nasce o che muore.

A pochi passi c’è il suo arco. Spezzato. Frammenti di ambra che svaniscono nella palude.

Le frecce di luce sono conficcate un po’ ovunque. Sul tronco degli alberi, nel cuore della pietra. E la loro fiamma languisce come stella defunta.

Molte però sono profondamente confitte nel dorso lurido di un grande animale.

Un vasto palco di corna argentee. Froge dilatate per l’affanno. Schiuma alla bocca e sangue ovunque. Emerso dalla foresta come tragico relitto di dio. Il Cervo Bianco di Felsina, suo padre.

Le zampe sono strette in una fitta rete di viticci e radici e spine e rami, piegati dalla magia. Scalpita furibondo, mentre da un occhio, spappolato da un centro perfetto, colano grumi di umor vitreo e sangue.

Evàn ha abbandonato le armi sul prato e combatte con i denti e le mani. Non ha forze per sostenere la sua illusione e nella luce chiara vedi distintamente la cicatrice che gli apre in due la faccia. Per antica maledizione pulsa di nuovo e presto si spaccherà sotto l’onda del nero che a stento trattiene. Il principe ha il ventre graffiato e una mano schiacciata. Una zoccolata che gli ha frantumato le dita e distrutto l’arco, forse. Vorrebbe curarsi ma il cervo si sta liberando…corri tra il rovo, presto…senti i rami lacerare il velo…il piede viene tirato giù dal fango…

Evàn lancia un urlo e si scaglia a testa bassa verso suo padre. Combatte con l’istinto feroce dei cuccioli, con la cieca passione del cacciatore, con l’inutile furia di un pazzo. Ha sacrificato le sue corna e ora picchia la fronte, piangendo, sul costato del cervo, e cade all’indietro quasi stupito. Batte il piede per terra, ma non diventerà zoccolo. Con le unghie si artiglia la carne, come per scorticarsi, per tirare fuori, da quell’inutile involucro d’uomo, il suo corpo di cerbiatto snello e veloce, con l’occhio nero e l’occhio d’argento, e il suo corno acuminato come il sacro pugnale di Samhain da affondare nel collo della vittima. Aggiungi ferita a ferita principe…scavati…immolati se vuoi, ma aspetta…aspettami…via, la scarpa se la tenga pure la terra, a piedi scalzi ora tra i le fruste del salice, oltre i tronchi inarcati come serpi, e via pure il velo del mondo, strappato e gonfio di acque amare…avvolta nella magia oscura delle figlie del fato, velata eppure nuda, sei pronta…anche tu.

Ti fermi al limitare della radura.

E sai.

Tutto.

Canti.

Tutto.

E così, invece di morire, il Principe Nero e il Dio Cervo, danzano.

Affondo e parata, ferita che squarcia il ventre o piega il ginocchio, l’inciampo improvviso, la faccia nell’acqua, lo zoccolo che si abbatte sul cranio, lui che lo schiva, rotola via, nel rovo, e poi addosso, dall’alto, sostenuto dalle ali della tempesta, e il cervo si scrolla e Evàn cade sul sasso e si rialza veloce, e la carica dell’altro e le corna imprigionate nella quercia.

Il sangue.

I brandelli di carne strappata che cadono nella terra guasta.

Lo sputo.

Il pianto.

Tutto canti.

Canti lo sfarsi del corpo che hai amato, canti la rabbia che ancora lo regge. Canti il bramire del cervo fiaccato e la punta delle corna troppo tagliente. Canti l’amore traditore, qui assente. Canti la tua muta, immobile, presenza. Canti l’artiglio del Principe Nero che apre la gola di Dio. Canti il corno che penetra il suo cuore nero.

Canti.

Nel tuo canto sono racchiuse le sue ultime, tre quattro parole…forse nemmeno le ha pronunciate… con la gola ridotta a quel modo…forse il Dan ha voluto che ci fossi proprio tu, lì, per gridarle al posto suo…forse.

Canti ancora, mentre ti appresti all’ultimo rito. Con mani di vegliarda raccogliere le ossa e la carne che resta, bianca e rossa, impigliata al nero dei rami spinosi…proprio come luna nel rovo.

E prima che la luce del giorno dissolva il sogno come rugiada, prima che te lo porti via per sempre, ti accorgi, con spavento, di aver portato la mano alla bocca…

Del resto, Ikhernofret, alle tue spalle, sta mangiando già da tempo.

 

…wie sind wir wandermude – ist dies etwa der Tod?…siamo così stanchi del cammino – è così, forse, che si muore?

qualcuno nell’altro mondo urla, con la Sua voce, ancora per un poco…anche lui sacrificato a questo mattino, Stefano, forse…o chi per lui…

 

Ma è già il nuovo anno. Di nuovo.